Torno da voi con un po' di ansia, che potremmo definire quasi da prestazione.
Torno con lo spirito di chi non sa se le parole se sta scrivendo siano scarabocchi gettati nel vuoto o parole vere nella loro imperfezione, accolte con un misto d'indulgenza e comprensione.
Perciò, semplicemente torno, senza essermene mai davvero andata, almeno con la mente.
Torno per dirvi che sto cercando di vivere,
e che questa è l'esperienza più difficile della mia vita.
Nessuna epifania, nessuna ispirazione dall'alto o improvvisa redenzione dell'animo.
Nessuna guarigione, ma respiro accelerato, tachicardia, panico.
Ho passato troppo tempo a stare male,
un tempo che mai nessuno mi ridarà.
Non voglio arrivare alla fine di questa vita lasciandomi dietro solo lacrime, solitudine, privazioni.
Voglio avere qualcosa da ricordare, voglio iniziare a costruire.
Ora come ora la serenità è una violenza.
E' straziante cercare di ridere, convincere se stessi e gli altri che il cibo non è un problema,
che la vita non è un problema.
Che la depressione non è mai esistita, che gli attacchi di panico sono solo un brutto incubo, che i calmanti non servono a nulla.
L'istinto è sempre quello, di lasciarsi andare, di farsi trascinare.
Non esistere è la via più facile,
ma mi ci sono rifugiata una volta di troppo.
Voci non ne ho sentite più se non quella della mia autocoscienza, voglio provare ad ascoltarla.
E' per lei, per me, per voi, che ho scritto questa goffa preghiera di getto, col cuore in mano e le mani un po' sudate.

Aspera